Specie quando si possiede un Ego fameliko.
"Parole, colori, luci, suoni, pietra, legno,
bronzo appartengono all'Artista.
Appartengono a chiunque sappia usarli.
Saccheggiate il Louvre!"
(William S. Burroughs)
Orge spettrali. Kanoni inversi in kalamitazioni kolme e kolanti, kalkate e kalkanti.
Acqua. Mare. Attrazioni e Astrazioni a Tratti Distratti.
Terrazze dirompono su quieti dirupi di ginestra, squame, burroni e kartine, rinkorse e salti di palo, fraske di rosmarino, singhiozzi di merito, kadute e voli, salti senza rete e voli oltre questa; graffiti e deja vu, kontorsioni e ghiaccio, pieghe, kolla, kollante e rullante, kassa, kontrokassa e violoncello, battere e levare, levare per mettere, andare per tornare, elezioni senza elettori ed eletti dialetti letti voluti in diletti letti indorati da asinkronie di marea.
Siedo e annodo linee di orizzonte in bikkieri di polikromie.
Torre di sfondo. Arrokko vibrazioni di kolore e mastiko nuvole di vetro.
Kado ogni volta ke mi siedo e kado ogni volta ke non kado.
Gabbiani stuprano cieli improbalpabili ebbri del potere di decider nella voluttuosità del kogliere e del momento, in umori kadenzati, in danze immobili, se farsi anatema o amante. Sogno unghie metallike su barattoli di sogni, tintinnar di falangi e bankettar di parole. Pentatonike negli spiccioli dell'onde e fomentatori dell'inquietudine dissertar di sale nell'ombra dell'acqua nell'acqua. Akrobati delle predestinazioni e kolletti bianki della volontà derisa.
Sobbalza il quadro, dissolve, kompone. L'Acqua è una biglia tra kiglia e konkiglia, skaglia la sveglia per miglia e miglia, lascia e ripiglia, spariglia, skompiglia, Fuoko di paglia prende ke è una Meraviglia, veglia la soglia. Voglia.
Scivoli antitetici e antigravitazionali in parallele opposte e komposte, tentate riposte, finite risposte.
Furiosi cilindri di Vento in una bonaccia estatika, dentro e fuori in kollimante kollisione, kollasso e implosione. Fucina di strappi nel palmo di mano e baritonali flessuosi e fluenti arrampikano il sole ke, ormai skomparso, può essere intuito. Flussi di koscienza.
Ventre di skiuma, sobillar di sabbia, grakkiar di skoglio, ventriloquar d'anfratto, skrikkiolar di brezza, frusciar di legno, sordità d'alga, frustar di ciottolo e postillar d'onda. Ritmike, korde, fughe fuggenti da spiagge e lustri passati da poko, fuggir per esser cerkato, restare per skappare, skappare per skappare, inkappare in fughe e sublimazioni di queste. Quindici anni a koltivar inquietudini per sillogismi, assonanze, allitterazioni e konsonanze dal dono di sintesi. Inverno. Libertario kova alibi di freddo e spazio per gabbiani reietti, e gabbiani. E reietti.
Gridi, stelle, nient’altro. E in più tutto era livido come uno schiaffo. Sandor si teneva la guancia. Gli sarebbe piaciuto essere un bambino martire. Ma non lo era. Suo padre non lo picchiava mai. Aveva ben altro da fare. Sandor si annoiava. A un tratto si è stufato di quella cassetta di legno. Avrebbe voluto uno schiaffo. Per urlare. Per fare chiasso. Si è messo a insultare suo padre, ma suo padre non si arrabbiava, non era per niente offeso. Non ci si può offendere quando si ha altro da fare. Sandor si sforzò di svegliarsi. Il sogno era noioso. Non era neppure un incubo.
Il sogno era un’isola deserta. Un’isola veramente deserta, dove non c’è nulla da fare.
Suonò una sveglia.
Sandor si mise a sedere sul letto, sbadigliò. E improvvisamente ricordò che sua madre era morta.
Uscì nel cortile. Vide i galli.
La cassetta di legno. Tutto ciò che voleva vedere.
L’erba, l’uccello, il sole.
Era la sua prima giornata in quei luoghi sconosciuti.
Uno dei ragazzini è venuto a chiamarlo.
Sandor non voleva vederlo.
Ma quando l’altro gli ha parlato, Sandor non ha potuto fare a meno di alzare lo sguardo.
Eppure aveva detto una sola parola:
- Vieni.
Sandor lo guardava. Era un bel bambino. Il bambino gli sorrise:
- Mi trovi bello, vero? Tutti mi trovano bello. Ma per me fa lo stesso. Non provo più alcun fastidio. Ci sono abituato.
- Ti voglio bene, - disse Sandor.
- Lo so, - rispose il bambino. - Un giorno sarò tuo figlio. Ma prima devo morire.
- Sì, - disse Sandor, - parlami ancora.
- La persona che amo di più è mio fratello, - continuò il bambino. - Lo amo più di tutti gli altri messi insieme, più di me stesso.
- Perché? - domandò Sandor.
- Non so. Lo guarderai e capirai perché lo amo.
- Parlami ancora, - disse Sandor.
- Dovresti venire a mangiare, - disse il bambino.
- Non ho fame.
- Se non mangi diventerai pallido e malato, e tutti saranno tristi.
- Anche tu? - domandò Sandor.
- No, io no. Io non posso essere triste, perché una cosa mi consola dell’altra.
- Presto mangerò, - disse Sandor. - Forse domani, o già questa sera.
Il bambino lo guardava con i suoi grandi occhi grigi.
- Parlami ancora, - disse Sandor.
- No, sei tu che devi parlare. Io non ho niente da dire. Per me la vita è semplice e bella.
- Bella? - disse Sandor.
- E semplice, - disse il bambino.
- Ma che ne sai tu della vita? - gridò Sandor con rabbia improvvisa. - Preferirei che adesso te ne andassi!
Il bambino si è alzato:
- Davvero vuoi che me ne vada?
- No, resta, non fa niente, comunque sia è troppo tardi.
Agota Kristof, -Dove sei Mathias?-.
And soon I heard a roaring wind:
It did not come anear;
But with its sound it shook the sails,
That were so thin and sere.
The upper air burst into life!
And a hundred fire-flags sheen,
To and fro they were hurried about!
And to and fro, and in and out,
The wan stars danced between.
And the coming wind did roar more loud,
And the sails did sigh like sedge;
And the rain poured down frome one black cloud
The Moon was at its edge.
The tick black cloud was cleft, and still
The Moon was at its side:
Like waters shot from some high crag,
The lightning fell with never a jag.
A river steep and wide.