(La Cacciata di Lama)
Si narra che in un locale di Zurigo, nei giorni in cui la guerra imperialista insanguinava l'Europa, nascosto tra la folla che ascoltava le strane recite di Tristan Tzara ci fosse Vladimir Il'ic Uljanov, in arte Lenin. Nascosto tra la folla, seduto accanto alla Krupskaja, l'esule russo certamente dovette sorridere nel percepire la forza sottile dell'ironia sovvertitrice dell'ordine più profondo che irregimenta la società: l'ordine del linguaggio. Poi Lenin ritornò in Russia, trascinato dalla tempesta rivoluzionaria. Pronuncio della parole semplici: pane lavoro pace libertà. Tutto il potere ai soviet. Trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Le sue parole mossero all'azione milioni di uomini, il mondo ne fu cambiato. Ma la potenza delle parole produce mostri, se non è temperata dall'ironia, dalla cosciena ludica dell'azione. E la coscienza ludica è la consapevolezza del fatto che stiamo giocando un gioco, che le parole creano un mondo che si libra leggero nell'aria. (...)
Qual'è la vera potenza del linguaggio?
Quella insita nelle parole di Lenin, che mette in moto milioni di uomini e crea un partito d'acciaio e uno Stato di granito? Oppure quella che sta nelle parole del pazzo, del poeta, del giullare? Le parole leggere che mettono il mondo in sospensione, che irridono la forza dell'acciaio e della pietra?
L'acciaio e la pietra sono potenti, ma il sorriso di più, perchè può ridere dell'acciaio e della pietra.
Dove sta l'Autonomia? Nella forza che si contrappone, violenza contro violenza, o nella leggerezza del sottrarsi, nella leggerezza di chi non risponde all'appello, di chi dorme invece di andare in fabbrica, di chi fa l'amore quando si è chiamati a combattere?
Non c'è potenza più grande del sottrarsi, del non essere, del non fare. E' questa la potenza dell'Autonomia. (...)
In Aprile, A Milano, migliaia di operai si riunirono in un teatro che si chiama Lirico. Infuriava la tempesta scatenata dai ribelli contro lo Stato ipocrita di burocrati e dei preti e dei capitalisti. (...)
Lirico il desiderio che si fa parola, che si libra nell'aria, che vola dall'uno all'altro come una promessa leggera di possibile gioia, di libertà dal bisogno. Volevamo andare verso un'epica senza sudore e senza violenza, un'epica, diciamolo, un pò ironica, un'epica dell'assenteismo, della disaffezione al lavoro, un'epica della pigrizia e della rilassatezza. Un'epica sensuale capace di spazzare via l'obbligo del lavoro e la miseria che nasce dal pregiudizio che il mondo sia necessario. Un'epica della felicità possibile che si collettivizza.
Ma sapevamo che quel gioco è così difficile. Come l'intendersi tra Vladimir Il'ic e Tristan Tzara, che pur si incontrarono nelle serate del Cabaret Voltaire.
Difficile trasformare la vita quotidiana librandosi leggeri come parole sussurrate: vieni con me, abbandona la linea di montaggio.Difficile perchè il potere dei grigi ottusi pericolosi non lascia facilmente che il possibile si liberi dell'esistente.Eccoli allora, uguali nel cuore e nella tensione muscolare, angeli del traffico comparire da dietro le colonne, in nome di tutti i doveri ossessivi, il dovere della produttività, il dovere del socialismo, il dovere della militanza, il dovere del conto in banca, della nazione, del popolo e dello Stato.Non evitammo il Tragico. Non fummo in grado di evitarlo.Il Lirico e l'Epico non celebrarono nozze ironiche come nei nostri voti.Eppure siamo ancora a quel punto.Il potere riproduce i suoi miti funerei rinnovando ogni giornole litanie sacrificali del dovere del lavoro e della miseria.Il Desiderio alza il capo per ascoltare il Vento, e attende ancora.Attende che venga il tempo della leggerezza.Ancora Rilke, per finire cadendo verso l'alto.
"E noi che pensammo la felicità
Come un'attesa, ne avremmo l'emozione
Quasi sconcertante
Di quando cosa che è felice, cade".
Da "Leggermente Ribelli" di Franco Berardi (Bifo) in Gli Autonomi, Le storie, le lotte, le teorie, Vol I